LE INTERVISTE DI KAUFMAN:

RICCARDO SPAGNULO

Prosegue il nostro dialogo con i docenti Kaufman: questa volta l’incontro è con Riccardo Spagnulo che, al MAT – Laboratorio Urbano di Terlizzi, nel mese di aprile, condurrà il corso dedicato alla drammaturgia.

Ricordi il momento in cui è nato il tuo amore per il teatro? 

«Nel cortile del liceo, quando il pomeriggio c’era il laboratorio teatrale. Era un diverso modo di stare insieme agli altri, più intenso, paradossalmente più sincero. Non c’erano più libri, quaderni o registri a fare da barriera tra gli individui, la vita scorreva pura. Era divertente, era adrenalinico, era imprevedibile. Il teatro è una scusa, un incidente, un mezzo, io ricerco quel modo di uscire dalla prigione della pelle, di sentire le altre persone più vicine a me, più simili a me».

Quando è maturata la consapevolezza che il teatro avrebbe avuto un peso specifico così rilevante nella tua vita? 

«È una domanda che mi faccio sempre. Vivo periodi di amore e odio nei confronti del teatro, sia di quello fatto che di quello visto. Ho attraversato periodi di bulimia teatrale ad altri di completo distacco, mi sono interessato di cinema, falegnameria, cucina, ho insegnato italiano ai richiedenti asilo, eppure credo di aver continuato a far teatro lo stesso. Oggi la mia consapevolezza è quella che la molteplicità, come diceva Calvino nelle Lezioni Americane, sia l’unità di misura per mettere in pari sulla bilancia della vita il teatro con altre cose che hanno uguale valore».

Sei sia drammaturgo che attore; preferisci una delle due figure?

«Da drammaturgo l’estrema gioia è quella della creazione solitaria, da attore è l’essere in relazione con altri. Ci sono pro e contro per entrambe, posso solo dire che sedersi in platea e guardare gli attori che recitano quello che hai scritto, a volte può dare più tensione di quando sei proprio tu sul palco».

Come si impara a scrivere?

«Con l’allenamento. È una palestra giornaliera, la scrittura è un muscolo e l’ispirazione è una menzogna. Quando inizi a scrivere dopo un periodo di inattività è sempre più difficile di quando stai finendo le ultime pagine. Ma si impara anche incontrando delle persone speciali, che ti guidano o con cui fare insieme teatro e procedi con loro per tentativi. Impari molto di più da un attore che legge il tuo testo, che da letture di manuali o workshop. Il teatro è una macchina complessa e il testo non è morto, deve essere messo in vita da qualcuno, perciò si impara molto dalla messa-in-vita di un testo».

Domanda facile: se dovessi scegliere uno spettacolo e una drammaturgia, quali sceglieresti e perché?

«Cinema Cielo di Danio Manfredini, perché l’ho visto due volte a distanza di dieci anni e la sensazione che ho avuto entrambe le volte è quella di essere davanti ad un capolavoro. Per quanto riguarda il testo, sono legato a Bernard-Marie Koltès e alla sua lingua, quindi scelgo Roberto Zucco».

La “nuova” drammaturgia italiana (e per nuova, intendo quella degli ultimi venti anni) è spesso bistrattata. Secondo te ci sono valide proposte drammaturgiche nella nostra penisola?

«Tenete d’occhio la generazione 2030: Pier Lorenzo Pisano, fresco di Premio Tondelli e Camilla Mattiuzzo, che ha lavorato con Latella a Santa Estasi, sono davvero bravi. Li ho incontrati entrambi a Venezia alla Biennale Teatro e mi hanno colpito molto».